RECENSIONI SU ALTRI AUTORI






SILVA  GENTILINI

“Le formiche non hanno le ali” - Mondadori Electa
















Due storie, una contemporanea, l’altra di inizio ‘900.  Apparentemente distanti ma tremendamente vicine nel dolore, nella mortificazione, nel desiderio di riscatto. Due storie che ci dicono molte cose sul mondo, sulla sua crudeltà, sui pregiudizi, sul cinismo. Ci dicono che la gente cambia nei costumi, nel linguaggio, nel livello di benessere, ma non nel profondo, nella durezza dei pregiudizi, nel male che fa. E ci pongono pure un’altra domanda, a cui in verità è difficilissimo rispondere: perché l’uomo si costruisce da sé le proprie catene? Severissimo con il prossimo, infesta la vita di divieti, delimita il territorio, costruisce staccionate difensive e considera nemici tutti quelli che le mettono in discussione, diventando così miope, pigro, impaurito dalla vita e invidioso dell’altrui felicità.

Due storie dunque che, come in una partitura, procedono ognuna con la propria tonalità ma con lo stesso ritmo e con precise corrispondenze nei crescenti, nelle pause, nei momenti di riscatto, quasi a suggerirci che, nonostante le mutate apparenze, il mondo non è cambiato, che ieri come oggi valgono le regole ferree dell’egoismo personale, dell’ipocrisia, del perbenismo formale e che non c’è riguardo per le sofferenze che esse procurano.

Emma è una fanciulla bellissima, dai lunghi capelli biondi. Sarebbe stata forse una donna felice, una madre tranquilla, se la tragedia della violenza familiare non l’avesse sconvolta, se un padre cattivo e instabile non avesse trasformato la sua vita in un inferno di grida, minacce, botte. Perché lo fa? Cos’è che lo rende così crudele? Il libro non lo spiega, né può farlo, perché il male cova dentro di noi, come un’ombra, eterno e inspiegabile, e poi si proietta sugli altri e li trasforma. Così le delusioni, i tradimenti della vita diventano arma, coazione a ripetere: “Poiché tutto ho subito, tutto posso fare”. La guerra genera guerra, la violenza altra violenza, l’odio altro odio. Sopraffazione e resistenza diventano la vite senza fine che penetra le storie dei personaggi e li inchioda alla loro infelicità.

L’altra donna della storia è Margherita, dolce ragazzina dei primi anni del novecento che, come tutte le adolescenti, crede che il mondo sia senza steccati, che l’amore possa essere perdonato, che la vita sia incontro con l’altro. Presto però deve accorgersi che non è così, che strade strette vincolano il cammino, che ci sono posti di blocco e che uomini armati non lasciano passare i sentimenti. L’amore diventa per loro intollerabile atto di ribellione, da punire senza pietà quando tenta di superare i fili spinati che sono stati tesi. L’amore di due giovani di censo diverso è perciò rigorosamente proibito, il suo frutto avvelenato. Perciò Margherita è costretta ad abbandonare il bambino nato da quella colpa che colpa non è, a fuggire dalla condanna, dalle occhiate malevoli, dal chiacchiericcio crudele, per cercare in terre lontane il suo riscatto. Ma in quella nuova vita, costruita al di là del mare, lei porterà per sempre il vuoto di un’assenza, un buco nero che non le permette mai più di essere la ragazza di prima.

In conclusione, un libro, scabro, asciutto, senza pietismi, senza compiacimenti, con dentro la vita vera (quando lui mi colpiva, sentivo il sapore del sangue. Era pastoso e con un gusto di una vecchia chiave…”), descritta con linguaggio moderno, sorvegliato, duro e con qualche raro sprazzo di tenerezza. Una storia forte che cattura e che si legge tutto di un fiato perché ha il ritmo e la padronanza narrativa della buona letteratura.

Le formiche non hanno le ali”, pur essendo libro d’esordio per Silva Gentilini, è già romanzo sorprendentemente maturo che sviluppa tematiche rilevanti, rifuggendo gli abbellimenti letterari. Una storia costruita sulla carne, che sa di vita vissuta, di verità, di confessione.

Si sta affacciando nel panorama letterario italiano una nuova grande scrittrice?  Lo si vedrà col tempo. Per ora abbiamo motivi per sperarci, perché nel chiacchiericcio fatuo e autoreferenziale di questi tempi, ne abbiamo davvero bisogno.

Renato Fiorito







Distrazioni” di Antonella Antonelli

Edizioni Progetto Cultura

(Renato Fiorito)






Ecco cos’è questa raccolta di 13 racconti di Antonella Antonelli: un libro di ribellione, di solitudine, di contrasti, di sfide, di dolore, costruito a strati sovrapposti con dentro l’asprezza della vita, la violenza del potere, il pudore dei sentimenti, la tenerezza dei ricordi.
Come nei grandi scrittori veristi, a partire da Verga, quello dell’Antonelli è un raccontare impersonale, scarno, dal quale l’io narrante quasi si ritrae, tacendo le sue opinioni per immedesimarsi completamente nei fatti e lasciar parlare loro. Verista e visionario ad un tempo, il suo modo di scrivere non cerca paternità letterarie, assorbito com’è dalla febbre di raccontare le sue scomode verità e liberarsi dal pesante fardello. Emerge in tal modo il tortuoso percorso dei sentimenti, la sfida titanica che la fragilità del singolo porta alla smisurata violenza della società, ai pregiudizi che la ingabbiano, al perbenismo che la deturpa.
In quasi tutti i racconti il passato si incunea nel presente e lo condiziona; il male ricevuto determina i comportamenti attuali e impedisce ogni felicità. Il prezzo da pagare è una sofferenza sempre rielaborata, un rimasticare continuo del dolore per cercare una più compiuta consapevolezza.
Affiora in questo una sensibilità femminile ma non femminista, che ambisce alla sincerità dei rapporti e che smonta gli stereotipi pezzo a pezzo, lasciando il lettore spiazzato, disarcionato dalle sue impettite certezze.

Così avviene nel racconto “Il Velo”, che apre la raccolta, dove gli errori dei protagonisti, lui gigolò lei suora, sono il modo per scandagliare in profondità l’animo umano e cercare, con finezza psicologica, la parte rimossa del sé, che sola può aiutare a comprendere e perdonarsi.

In ciò Antonelli ha delle straordinarie capacità di mimesi con cui riesce a penetrare in profondità l’animo dei suoi personaggi. In “Un proiettile e un cuore arrugginito” si racconta ad esempio la vita di una prostituta, la sua fanciullezza violata, la vita segnata da un odio profondo e da un'ansia di vendetta che spaventa per la sua lucidità. Il risultato finale è il capovolgimento di una morale perbenista e superficiale che finisce per imputare alle vittime le loro stesse sofferenze e per assolvere chi le ha procurate.

Un altro racconto che mi è molto piaciuto è quello de “Il bambino con il pallone”. Esso ha un folgorante incipit “Io sono il bambino con il pallone sotto il braccio” con cui riesce subito a trasmettere una suggestione da vecchia foto bianco e nero, dalla quale lentamente emergono fatti e ricordi. Il pallone che il piccolo Leonardo porta orgogliosamente sotto il braccio è metafora della vita: “Più veniva preso a calci, più i ricordi si cancellavano e le cuciture si rompevano”, e dura finché dura la sua innocenza.

Al centro del bellissimo brano c’è la morte improvvisa del nonno che segna per il piccolo Leonardo il passaggio repentino dalla fanciullezza all’età adulta, e c’è il conflitto con il padre che sfocia in uno scontro drammatico e feroce, non alimentato dall’odio ma da una richiesta inespressa d’amore che non ha trovato mai risposta. Dice infatti Leonardo: “Forse vuole abbracciarmi, mi scanso e scappo via al buio piangendo e pregando che mi segua, che faccia un ultimo tentativo. Come sempre ho bisogno di essere sicuro che siano sinceri con me, ma lui non mi conosce, che ne sa? “

Come in altri racconti, è invece di conforto l’universo affettuoso e protettivo dei nonni con cui viene recuperato una sorta di “sapere” esistenziale, il valore affettivo e consolatorio di una solidarietà intergenerazionale da cui sembrano esclusi padri e madri dalle figure scialbe e distratte, emblematiche del fallimento educativo e affettivo della generazione di mezzo.

Infine mi piace citare “Non sono ma esisto” nel quale un barbone senza identità e documenti vive il proprio annichilimento con una sorta di rassegnato compiacimento. Egli ha modi ruvidi e schivi e disdegna simpatia e benevolenza. Con grande efficacia narrativa la scrittrice evoca l’opposizione tra apparire e essere, tra dolore della vittima e ferocia dei carnefici e certifica magistralmente il degrado cui può condurre un sentire cinico e violento che nega valore ad una vita solo in ragione delle sue disgrazie: “Sono solo uno che da vivo conta quanto conterebbe da morto”, riflette infatti il povero barbone.

Nel frattempo riflessi della bellezza di Roma con le sue luci, “che sembrano scaldare il fiume da dentro,” si mescolano alla indifferenza della città santa, che santa non è mai stata poiché scivola sulla povertà e sul dolore senza vederlo.
Chiude il racconto una frase struggente che ben riassume, a mio modo di vedere, l’atmosfera dell’intero libro: “Ecco cos’è la solitudine, sapere che potresti avere qualcuno con cui dividere il cammino e invece farlo da sola quel passo, e poi un altro e poi tutti gli altri, fino alla fine.”
“Distrazioni” è un libro stimolante e intenso che andrebbe letto. Ci sono tanti volumi che ingombrano le librerie. A volte, non sapendo bene cosa scegliere, si cede alle manipolazioni della pubblicità, al fascino rassicurante del volto noto, e si trascurano per contro libri di valore come questo che emozionano perché hanno dentro la sapienza artigianale dello scrivere bene, ma non vengono segnalati per ragioni di marketing. Questa recensione è un piccolo atto di riparazione a tutto questo.






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DANTE MAFFIAIl poeta e la farfalla, Roma, Lepisma, 2014


Recensione di Renato Fiorito



Leggendo il libro appena uscito di Dante Maffia, Il poeta e la farfalla, ho capito che per lui l’amore è una sfida alla decadenza, alla morte, all’arrendersi alle ragioni del tempo. Del resto lo dice chiaramente nella poesia d’apertura: “E io che non volevo morire/ a poco a poco/ ma nel fulgido impatto/della dissolvenza,/ nel tremore che cancella/il diluviare dei nessi/ e porta al pari. E a un certo punto ti annunci, nasci in me e ti opponi all’inclemenza del disfarsi…” Fa qui irruzione la donna che dà alimento al suo poema, alla sua fame di vita, al desiderio di comunione e di carnalità che lo prende: “Fa che almeno per un attimo la tua bocca sia pane quotidiano”.Lo stupore del miracolo dell’amore si mischia così all’ansia del tempo e alla coscienza della fugacità della vita, rendendo più vivo e struggente l’incontro.



Anche qui, come nel Poema totale della dissolvenza, mille affluenti vanno a formare il grande fiume di parole e immagini di cui è denso il libro, mescolando le loro acque fino a formare qualcosa di nuovo e di tumultuoso che dà risposta al  nostro bisogno di essere accolti, accettati, riconosciuti nella unicità e nobiltà segreta del cuore.



Quello che colpisce non è tanto la bellezza dei singoli versi, che pure straripa, ma la magnificenza del quadro d’insieme perché, come in un bosco, non è il singolo albero a fermare l’attenzione, ma l’immensità del verde, le sue sfumature, la varietà delle mille vite che vi si nascondono.



Maffia, da grande poeta qual è, si muove in questa orgia di parole, similitudini,  metafore inaspettate, di cedimenti e di carnalità, senza temere i luoghi comuni, né sfuggendo l’imperfezione, quasi a voler dire che se l’amore è imperfetto, se imperfetta e contraddittoria è la vita, perché i versi dovrebbero discostarsene?  Quello che, invece, fortissimamente vuole è che tutto sia detto e nessuna emozione vada persa affinché al grande affresco della vita nessuna pennellata manchi. Così anche il lettore finisce per  abbandonarsi a questo flusso di emozioni e si perde nel bosco che il poeta ha disegnato, attraversa i suoi sentieri, assapora  l’esaltazione visionaria, acuta, tenera, feroce di una stagione d’amore disperata e felice, scolpita  nell’unicità dell’attimo. :  “Un sogno di millenni/ ci appartiene,/ vastità senza limiti,/ luna che esce ed entra dalle albe/ sempre avidamente rosse. Avvicinati, dammi la bocca, la mia anima è tua/ la lingua ha le ali.”



Così ciclicità e unicità, febbrile esaltazione carnale e tenerezza di abbandoni si susseguono ininterrotti, andando a formare il pane sapido della passione. L’amore è quello tra due amanti di due età lontane. Essi  si incrociano, si sfiorano per un breve momento, formando qualcosa di vivo, di intenso. Nasce il rimpianto folle per quello che poteva essere e che invece non è stato: “ Oh se ti avessi conosciuta, ma tu stavi nascosta in una pancia di donna che ti voleva piccola, bella e obbediente, Eri di là da venire. E sei venuta poi, ma ormai concluso era l’assetto delle cose e il divenire un catalogo definito.”



Poi l’ora della fine avanza impietosa e si consuma velocemente il tempo della follia: “Troppi giorni separati, troppo chiusi nei misfatti d’un silenzio nero che ha aggrinzato le fioriture e disumanamente ha distolto la brace dal camino piegandolo alla cenere”. (pag. 417) E più avanti: “Intendiamoci, non ti do colpa di niente. Va sempre cosi, una ramaglia si mette di traverso e si ferma il motore.” Fino ad arrivare alla struggente, bellissima poesia finale: “Sarò sempre il viandante sventurato/ e berrò alla tua fonte/ sia per vivere/ e sia per morire. Sono stato dentro di te/ come il fulmine sta/ dentro le nuvole canterine./ Non le conosci? / Ecco allora in cammino con me/ sempre / senza voltarci indietro:/ gli orizzonti hanno mani e occhi,/ le tue mani sono orizzonti,/i tuoi occhi mi fanno vedere,/finalmente, /dove va la vita, / a cosa serve, /dove si trova l’infinita/ realtà del senso.”


Siamo dunque all’epilogo: storia di tutte le storie, amore di tutti gli amori che si ripetono all’infinito. Ci saranno certo altri amanti e altre parole, ma noi che abbiamo letto questa di storia ci sembra di aver trovato qui le parole, adatte al nostro dolore, che ci fanno riconciliare con i sogni, che a piene mani abbiamo sparso, e con le delusioni che ci hanno piegato ma non ucciso, e finanche con le lacrime che abbiamo tenuto segrete.

Grazie a Dante Maffia per questo suo confessarsi senza paure, senza falsi pudori, senza remore, per questo farsi pane per la nostra inappagata, eterna fame di tenerezza.

Renato Fiorito

2 commenti:

  1. Grazie a Dante Maffia, il suo farsi pane per noi, diventa lievito all'interno del nostro desiderio di leggere e poi scrivere dell'unico sentimento che sembra ingannare la morte, ma non lo scorrere inesorabile del tempo e dell'età, che pure nei suoi versi risorge malinconica e preziosa. Mi chiedo cosa possa spingere le farfalle a volare sempre lontane dall'amore, e l'unica risposta che so darmi è la plausibile paura di dover durare eternamente, loro che per natura vivono soltanto un giorno.
    Grazie a Renato Fiorito che ha fatto del pane un pasto d'ambrosia.

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  2. Antonella Antonelli, tu che sei una magnifica poetessa, sai che si crea tra chi scrive poesia un circuito di tenerezza involontaria, una vicinanza che conforta e vince le singole solitudini. E' un bene grande che gli altri non possono godere e che ci ripaga del nostro sofferto confessarci, ogni giorno, per dare tregua al nostro dolore.

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