Recensione del Prof. Carmine Chiodo - docente di letteratura moderna e
contemporanea all'Università di Tor Vergata – Roma
Renato Fiorito, La terra contesa, Puntoacapo - Collezione
letteraria , Rende 2016 , pp.59.
Ben vengano versi come questi di Renato Fiorito, ben illustrati criticamente
da Manuel Cohen e Vincenzo Vita. Ciò che subito colpisce di questa silloge, ispirata
al film documentario <<Route 181-Frammenti di un viaggio in Palestina
-Israele>> di Eyal Sivan (cineasta israeliano) e Michel Khleifi (cineasta
palestinese) è la musicalità, la chiarezza del linguaggio, ma pure il punto di
vista di terzietà con cui il poeta Fiorito si pone davanti alla complessa,
difficile realtà di due popoli in conflitto.
Subito ci è dato leggere, all'inizio del libro, questi versi illuminanti: “Non emetto sentenze, / sto con le vittime. /
Tutte. / Uso le loro parole, non le mie. / Mi limito a questo: riporto il
dolore, ...”; ecco, è dunque il dolore, di cui parlano sia arabi che ebrei,
il protagonista della silloge.
Senza alcun
dubbio questa opera di Fiorito è tra le raccolte di più alto e consistente
valore umano e poetico apparse in questo periodo di tempo, e che sia cosi
è ampiamente provato dalla scabra essenzialità dei versi e dalla stessa
struttura dell'opera.
“Io amo gli ebrei, / Amare è bello, / Uscire
con le ragazze israeliane è facile, / Più difficile sono le arabe / perché hanno
paura. / A loro è proibito tutto, parlare e uscire. / Per questo i giovani
vogliono andarsene. / Non è per il lavoro. E' perché qui non si vive. / La
politica araba è un fallimento. / Non arriverà mai la pace.” ( Cantieri, p.17);
e più avanti: “Sono disumani
gli ebrei o le loro leggi? / È cattiva la gente o la legge? / Questo pezzo di
terra / dove vivo con le mie capre / me lo porteranno via / in nome di
una legge / che si sono inventata / sulla gestione della terra / e a
nessuno importa / se non ho dove andare” (p.19, Masmiye).
Il dramma che
vivono i due popoli emerge con intensità poetica in ogni verso: “La Palestina non ha frontiere / solo fili spinati” (Check point, p.36); “Nostro
figlio è morto da martire, / Tutto il petrolio del golfo / non vale uno dei
suoi capelli. / La morte di un figlio è terribile. / La vita, non i soldi,
è la cosa più sacra al mondo” (ivi , p.37).
Tuttavia il
poeta non smarrisce la speranza di pace. Al riguardo è significativa la
terza parte della silloge, che si intitola, appunto: “Ma io dico che tra noi dobbiamo fare la pace” Qui si può leggere,
in esergo, un brano della lettera che Ariel
Sharon scrisse a Arafat nel 2001: “Spero che riusciremo
in un futuro prossimo a trovare il modo di riannodare i contatti
personali per porre fine allo spargimento di sangue, di odio e di violenza e di
ricostituire la sicurezza e la cooperazione economica in modo da ottenere una
vera pace.” e trovare immagini
limpide e suggestive come, ad esempio, quella di una piccola manifestazione di giovani
pacifisti israeliani nei pressi di Hawara:
“Sono scesi dagli autobus
/ portando cartelli di pace / e latte in polvere / per i bambini assediati. / Passano
per i campi / per aggirare i posti di blocco, / I soldati hanno gas
lacrimogeni / I ragazzi barattoli di latta./ <<No alle armi, no
alle lacrime, no alle uniformi>> ritmano coi cucchiai sui barattoli / e
sono più belli dei soldati. / Nello scegliere tra legge e morale / hanno scelto
di infrangere la legge. / Chi è per la pace è già di là del filo spinato”
(Manifestazione, p.43), e versi che
aiutano a capire meglio ciò che accade nella terra “contesa”:
“Sarebbe cosi bello il cielo di Israele / se non ci fossero i caccia ad
attraversarlo” (Il confine, p.45); e oltre: “Un tempo c'era la pace. /
Mia madre andava senza timore a Rammallah / e suo fratello viveva senza
preoccupazioni / in un quartiere arabo” (ivi).
Al di là delle
ragioni politiche e delle differenze tra le parti contendenti, la cosa certa è
che palestinesi e ebrei vorrebbero la pace, vivere una vita tranquilla e senza
muri: “si può vivere insieme ebrei e arabi, /
come era in Tunisia, come era in Marocco. / In tutti i paesi arabi si viveva
insieme” (Sajarah, p.51). Basta dunque
con le armi, i fili spinati, la violenza, le bombe. Scoppi invece la pace,
perché ciò che conta davvero non è il “molto male che c'è stato, / ma il bene che se vogliamo ci sarà”.
A guardar bene
come è congegnata, la raccolta si configura come un vero e proprio poemetto, delizioso
poemetto narrativo di altissima e profondissima sostanza umana e poetica,
trionfo della poesia vera e non di quella che gira a vuoto o vive di schemi astratti
e astrusi.
Renato Fiorito
con questo suo lavoro dimostra di saper comporre versi su temi di fondamentale importanza,
come la guerra, l’oppressione, la miseria, rinunciando alla retorica e con l’umiltà
del testimone che si fa da parte per assumere la voce di chi soffre sulla
propria pelle il dolore del conflitto: “Mi sono sposata nel'54. / Abbiamo
avuto otto figli. / Il più piccolo è stato ucciso nella guerra del Libano. / Era
il bambino più bello del mondo. / È per questo che non sopporto più Israele” (Sajarah,
p. 50); oppure ”La gente araba vive in ghetti decrepiti,/ [...] / Il mio nome è Myriam / Questa casa è una vera tomba senza
finestre ./ L'abbiamo presa per viverci in otto” (ivi).
Quando c'è la guerra succede di
tutto, e a tal riguardo si legga il testo che si intitola “Il ghetto”. Qui orrori su orrori, morte, stupri, cadaveri, resti umani per strada,
soldati che saccheggiano e commettono ogni abuso
sulla popolazione: “Ci sono stati stupri. / Uno proprio
davanti a casa mia, / Ne sono stato testimone. / C'era una donna con un neonato
di un mese e mezzo. / Sei uomini sono entrati in casa / e l'hanno violentata. /
Lei è scappata abbandonando il bambino. / Quando l'abbiamo ritrovata non voleva
più vederlo, / Sembrava impazzita, Gli occhi perduti. / Ma non era pazza
/ era solo una donna disperata. / Il fatto è che un soldato, quando nessuno lo
vede / può fare quello che vuole” (p. 32)
Poesia splendida questa di Fiorito, che si conclude con una inaspettata nota di speranza. Citiamo i versi: “Voi non immaginate cosa sia questo: / suonare nelle strade fianco a
fianco / e gettare via il conflitto / semplicemente ballando, / E' la speranza
la musica di un popolo” (Festa,p. 52). Ma prima si legge: “La luna dorme sopra le pietre. / Gli Yemen blues cantano nella luce, / Arabi
e giudei nello stesso posto, / musica e cibo mischiati ,/Gerusalemme è
sacra per tutti” (ivi).
Il poeta, l'uomo Fiorito
sta dunque con gli ultimi, con gli oppressi, accanto a coloro che non vogliono la guerra e chiedono solo “un po' di giustizia / se fosse loro concessa, / per fermare l'odio / e dire basta
ai morti”.
In conclusione, “La terra
contesa”, è un notevole libro poetico che guarda alla guerra con gli occhi
della gente comune, mettendone a nudo la follia, la crudeltà, il razzismo. I
politici, i governanti, i potenti della terra farebbero bene ad ascoltare
la loro voce che dice basta ai morti, ai fili spinati, alle bombe, all'odio
tra gli uomini.
Mi auguro che
quest'opera di Renato Fiorito possa essere letta e meditata da tantissime
persone, poiché in essa potranno trovare vera poesia e veri sentimenti umani.
Carmine Chiodo
Nessun commento:
Posta un commento