mercoledì 3 agosto 2016

La terra contesa - Recensione del Prof. Carmine Chiodo

LA TERRA CONTESA

Recensione del Prof. Carmine Chiodo - docente di letteratura moderna e contemporanea all'Università di Tor Vergata – Roma





Renato Fiorito, La terra contesa, Puntoacapo - Collezione letteraria , Rende 2016 , pp.59.


Ben vengano versi come questi di Renato Fiorito, ben illustrati criticamente da Manuel Cohen e Vincenzo Vita. Ciò che subito colpisce di questa silloge, ispirata al film documentario <<Route 181-Frammenti di un viaggio in Palestina -Israele>> di Eyal Sivan (cineasta israeliano) e Michel Khleifi (cineasta palestinese) è la musicalità, la chiarezza del linguaggio, ma pure il punto di vista di terzietà con cui il poeta Fiorito si pone davanti alla complessa, difficile realtà di due  popoli in conflitto. 
Subito ci è dato leggere, all'inizio del libro, questi versi illuminanti: “Non emetto sentenze, / sto con le vittime. / Tutte. / Uso le loro parole, non le mie. / Mi limito a questo: riporto il dolore, ...”; ecco, è dunque il dolore, di cui parlano sia arabi che ebrei, il protagonista della silloge.
Senza alcun dubbio questa opera di Fiorito è tra le raccolte di più alto e consistente valore umano e poetico apparse in questo periodo di tempo, e che sia cosi  è ampiamente provato dalla scabra essenzialità dei versi e dalla stessa struttura dell'opera.
Io amo gli ebrei, / Amare è bello, / Uscire con le ragazze israeliane è facile, / Più difficile sono le arabe / perché hanno paura. / A loro è proibito tutto, parlare e uscire. / Per questo i giovani vogliono andarsene. / Non è per il lavoro. E' perché qui non si vive. / La politica araba è un fallimento. / Non arriverà mai la pace.” ( Cantieri, p.17); e più avanti: “Sono disumani gli ebrei o le loro leggi? / È cattiva la gente o la legge? / Questo pezzo di terra / dove vivo con le mie capre / me lo  porteranno via / in nome di una legge / che si sono inventata / sulla  gestione della terra / e a nessuno importa / se non ho dove andare” (p.19, Masmiye).
Il dramma che vivono i due popoli emerge con intensità poetica in ogni verso: La Palestina non ha frontiere / solo fili spinati” (Check point, p.36); “Nostro figlio è morto da martire, / Tutto il petrolio del golfo / non vale uno dei suoi  capelli. / La morte di un figlio è terribile. / La vita, non i soldi, è la cosa più sacra al mondo” (ivi , p.37).
Tuttavia il poeta non smarrisce la speranza di pace. Al riguardo  è significativa la terza parte della silloge, che si intitola, appunto: Ma io dico che tra noi dobbiamo fare la paceQui si può leggere, in esergo, un brano della lettera che Ariel Sharon scrisse a Arafat nel 2001: “Spero che riusciremo in un futuro prossimo  a trovare il modo di riannodare i contatti personali per porre fine allo spargimento di sangue, di odio e di violenza e di ricostituire la sicurezza e la cooperazione economica in modo da ottenere una vera pace.” e trovare immagini limpide e suggestive come, ad esempio, quella di una piccola manifestazione di giovani pacifisti israeliani nei pressi di Hawara:  Sono scesi dagli autobus / portando cartelli di pace / e latte in polvere / per i bambini assediati. / Passano per i campi / per aggirare i posti di blocco, / I soldati  hanno gas lacrimogeni / I ragazzi barattoli di  latta./ <<No alle armi, no alle lacrime, no alle uniformi>> ritmano coi cucchiai sui barattoli / e sono più belli dei soldati. / Nello scegliere tra legge e morale / hanno scelto di infrangere la legge. / Chi è per la pace è già di là del  filo spinato” (Manifestazione, p.43), e versi che aiutano a capire meglio ciò che accade nella terra “contesa”: “Sarebbe cosi bello il cielo di Israele / se non ci fossero i caccia ad  attraversarlo” (Il confine, p.45); e oltre: “Un tempo c'era la pace. / Mia madre andava senza timore a Rammallah / e suo fratello viveva senza preoccupazioni / in un quartiere arabo” (ivi).
Al di là delle ragioni politiche e delle differenze tra le parti contendenti, la cosa certa è che palestinesi e ebrei vorrebbero la pace, vivere una vita tranquilla e senza muri: si può vivere insieme ebrei e arabi, / come era in Tunisia, come era in Marocco. / In tutti i paesi arabi si viveva insieme” (Sajarah, p.51). Basta dunque con le armi, i fili spinati, la violenza, le bombe. Scoppi invece la pace, perché ciò che conta davvero non è il molto male che c'è stato, / ma  il bene che se vogliamo ci sarà”.
A guardar bene come è congegnata, la raccolta si configura come un vero e proprio poemetto, delizioso poemetto narrativo di altissima e profondissima sostanza umana e poetica, trionfo della poesia vera e non di quella che gira a vuoto o vive di schemi astratti e astrusi.
Renato Fiorito con questo suo lavoro dimostra di saper comporre versi su temi di fondamentale importanza, come la guerra, l’oppressione, la miseria, rinunciando alla retorica e con l’umiltà del testimone che si fa da parte per assumere la voce di chi soffre sulla propria pelle il dolore del conflitto: “Mi sono sposata nel'54. / Abbiamo avuto otto figli. / Il più piccolo è stato ucciso nella guerra del Libano. / Era il bambino più bello del mondo. / È per questo che non sopporto più Israele” (Sajarah, p. 50); oppure ”La gente araba vive in ghetti decrepiti,/ [...] / Il mio nome è Myriam / Questa casa è una vera tomba senza finestre ./ L'abbiamo presa per viverci in otto” (ivi).
Quando c'è la guerra succede di tutto, e a tal riguardo si legga il testo che si intitola “Il ghetto”. Qui orrori su orrori, morte, stupri, cadaveri, resti umani per strada, soldati che saccheggiano e  commettono ogni abuso sulla popolazione: “Ci sono stati stupri. / Uno proprio davanti a casa mia, / Ne sono stato testimone. / C'era una donna con un neonato di un mese e mezzo. / Sei uomini sono entrati in casa / e l'hanno violentata. / Lei è scappata abbandonando il bambino. / Quando l'abbiamo ritrovata non voleva più vederlo, / Sembrava impazzita, Gli occhi perduti. / Ma non era  pazza / era solo una donna disperata. / Il fatto è che un soldato, quando nessuno lo vede / può fare quello che vuole” (p. 32)
Poesia splendida questa di Fiorito, che  si conclude con una inaspettata nota di speranza. Citiamo i versi: “Voi non immaginate cosa sia questo: / suonare nelle strade fianco a fianco / e gettare via il conflitto / semplicemente ballando, / E' la speranza la musica di un popolo” (Festa,p. 52). Ma prima si legge: “La luna dorme sopra le pietre. / Gli Yemen blues cantano nella luce, / Arabi e giudei nello stesso posto, / musica e cibo mischiati ,/Gerusalemme è  sacra  per tutti” (ivi).
Il poeta, l'uomo Fiorito sta dunque con gli ultimi, con gli oppressi, accanto a coloro che non vogliono la guerra e chiedono solo “un po' di giustizia / se fosse loro concessa, / per fermare  l'odio / e dire basta ai morti”.
In conclusione, La terra contesa”, è un notevole libro poetico che guarda alla guerra con gli occhi della gente comune, mettendone a nudo la follia, la crudeltà, il razzismo. I politici, i governanti, i potenti della terra  farebbero bene ad ascoltare la loro voce che dice basta ai morti, ai fili spinati, alle bombe, all'odio tra gli uomini.
Mi auguro che quest'opera di Renato Fiorito possa essere letta e meditata da tantissime persone, poiché in essa potranno trovare vera poesia e veri sentimenti umani.



Carmine Chiodo