venerdì 13 novembre 2015

Concurso Internacional Juan Montalvo



Questo brano, tratto dal mio romanzo "Ombre" è stato scelto per la pubblicazione nell'antologia curata dai Dipartimenti di Lingue e Letterature Straniere e di Scienze della Mediazione Linguistica e di Studi Culturali dell’Università degli Studi di Milano in collaborazione con il Consolato Generale dell'Ecuador e con il Centro Ecuadoriano di Arte e Cultura di Milano



Il Consolato Generale dell’Ecuador a Milano, insieme al Centro Ecuadoriano di Arte e Cultura presente nella stessa città, ha scelto di collaborare con i Dipartimenti di Lingue e Letterature Straniere e di Scienze della Mediazione Linguistica e di Studi Culturali dell’Università degli Studi di Milano nell’organizzazione di una manifestazione di più ampio respiro culturale ed etico, che aprisse alle narrazioni e alle immagini e rispondesse agli stimoli dello scritto che segue. STORIE GEOGRAFIE PAESAGGI MIGRANTI 
La geografia sociale con la sua attenzione alla mutabilità e mobilità del territorio, e la letteratura con la sua particolare vocazione a cogliere le sensibilità e a interpretare le storie dei soggetti in transito, ridisegnano una mappa per sua natura “migrante”, svelando le complessità sedimentate nel terreno, nel profilo del paesaggio, perfino nelle tracce disperse nei mari, testimoni di tratte e dolorosi distacchi dalla madrepatria. 
Un paesaggio mutevole e aperto in cui risulta preziosa la testimonianza di chi parte - il viaggiatore, il nomade, l’emigrante, l’esiliato - e le diverse prospettive di chi resta, accoglie, rifiuta, favorisce e promuove percorsi di integrazione. 
E’ stato muovendo da queste riflessioni e dalla grande sensibilità del governo ecuadoriano verso la salvaguardia dell’ambiente del nostro pianeta, che sono stati invitati italiani e stranieri a partecipare al concorso, dedicato a Juan Montalvo, prestigiosa figura letteraria ecuadoriana dell’800. La giuria internazionale, in parte composta da docenti dell’Università degli Studi di Milano, ha poi selezionato dieci opere per ogni sezione, che pubblichiamo in questo dossier.

Irina Bajini 
Università degli Studi di Milano

RACCONTI di Belozorovitch, Bianco, Castillo-Briceño,  
Fargion, Fiorito, Jara Albán, Lang Gutiérrez, Mugnaini, 
Navarrete Mier, Villa


http://riviste.unimi.it/index.php/AMonline/article/view/4148/4221



Il mare 
di Renato Fiorito 

E alla fine giunsero al mare. La sabbia era bianca sotto la luna. Era stato un viaggio breve, eppure lunghissimo per entrambi. Aveva attraversato il deserto, Hassad, per arrivare lì. Aveva visto la sua casa bruciare. Aveva visto morte e sofferenza. Era fuggito di notte su un carro, nascosto sotto la paglia, per non essere preso. Ed il deserto era diventato dapprima rovente sotto il sole, poi freddo alla luce delle infinite stelle, e poi ancora infuocato. Infine era arrivato al mare, che non aveva mai visto prima di allora, e trovata una barca per attraversarlo, lasciandosi dietro la morte dei suoi amici, dei compagni con cui aveva lottato, di quelli che lo avevano amato. Sarebbe ritornato un giorno. Lo avrebbe fatto, se ci fosse stata di nuovo una speranza per quella terra depredata e bellissima. Aveva attraversato il mare, stretto a decine di altri disgraziati, che avevano soltanto i loro vestiti e qualche dollaro avvolto nella plastica, cucito nel segreto del mantello. Fragile nascondiglio, facile da scoprire, che infatti mani sacrileghe, con la forza o con l’astuzia, spesso strappavano alla santità del loro sacrificio. Aveva attraversato il mare Hassad, ma, in prossimità della costa, anche i suoi dollari gli erano stati rubati, e l’avevano gettato in acqua con la forza, come avevano già fatto mille altre volte con altri disgraziati come lui. Alla fine, con la volontà di Allah, era arrivato a terra e si era nascosto stremato in un fosso, bagnato e tremante nonostante non facesse freddo. Vi rimase l’intera notte, poi iniziò a girare per le città, prendendo treni senza avere il biglietto e nascondendosi in vagoni merci poco controllati o su vetture zeppe di pendolari che lo guardavano con sospetto. Aveva raccolto pomodori, scaricato frutta ai mercati, lavorato in cantieri abusivi che tiravano su case in venti giorni, aveva dormito sotto mille ponti e ripari squinternati, aveva trovato la carità di pochi e le ingiurie di molti. Alla fine aveva dimenticato quello che sapeva, quello che era, quello che sperava. Hassad il clandestino, Hassad fuggito dall’odio e dalla morte, Hassad che sapeva di Ovidio e di storia romana, perché l’aveva insegnata ad Addis Abeba, non si ricordava più della sua vita e dei suoi studenti. Aveva insegnato loro l’orgoglio di essere africani, ma aveva smarrito il suo. E poi aveva incontrato quella mano, quella tenera mano di donna, quella tenera mano di donna cieca, e si era aggrappato a lei, come se il cieco fosse stato lui. Per lei, aveva ritrovato parole che credeva perdute. Le parole della complicità e della comprensione, per guidarla oltre il buio che l’avvolgeva, oltre la realtà povera e grigia, oltre l’indifferenza e l’egoismo della gente. La promessa fatta un giorno a sua madre era diventata un giuramento fatto a se stesso. “Non fare del male a Sabrina,” aveva detto la mamma morente “promettimi che non gliene farai.” E lui l’aveva promesso, su Allah, sul suo Dio e sul nostro, che poi sono la stessa cosa, poiché uno solo può essere il Dio dei cieli e della terra. “Ti giuro che veglierò su di lei e la proteggerò.” Così Hassad, che non possedeva altro che il proprio vestito, che non aveva casa, né denaro, né lavoro, che era clandestino e dunque delinquente, secondo un’equiparazione falsa e razzista, fece una promessa che non sapeva come mantenere. Ma si era impegnato, giurando a sé stesso, di raccattare negli angoli delle strade le speranze disperse, per curare le ferite che il mondo aveva inferto a quella povera ragazza, regalandole quel poco che aveva. E Sabrina, che aveva visto il padre morire sul lavoro, che era stata cacciata dalla sua casa, che credeva di morire il giorno stesso in cui aveva visto chiudersi gli occhi di sua madre, perché quelli erano i suoi stessi occhi e solo con quelli vedeva, si affidò a quella mano e le sembrò che la vita non fosse più così brutta. Ora erano al mare. La sabbia era bianca e la luna disegnava losanghe di luce sull’acqua. “Com’è il mare?” chiese Sabrina, mentre si sedeva sulla sabbia e piccoli grani freddi le scivolavano tra le mani. “Non è giusto che una persona attraversi questa vita senza sapere cosa sia il mare.” Hassad cercò lentamente le parole che potessero darle il senso di quell’immensità che le era negata. “Il mare non si può dire com’è. Il mare è acqua infinita, ed è di più, è movimento senza fine ed è di più. Il mare ha colori rubati al cielo e lascia specchiare la luna. Il mare è una curva lontana che segna il confine del mondo. Ma il mare è ancora di più, entra dentro, diventa parte di chi lo guarda, è la speranza di partire, è la certezza che la pace è possibile, è il sole che esce dalle onde e dice che, nonostante tutto, nonostante noi, da qualche parte lontana o vicina, Dio esiste.” “Hassad come fai a trovare parole così belle? Che gusto ci provi nel farmi commuovere?” I due giovani stavano sulla spiaggia, tenendosi strette le mani e sentivano i loro corpi toccarsi. Ascoltavano parole che i loro cuori riconoscevano e che non nascondevano altro che la loro felicità. Nel silenzio, si udì il richiamo di un uccello notturno. “Che colore ha il mare, Hassad?” chiese ancora Sabrina. Hassad vide i riflessi della luna sull’acqua e le disse del colore nero e di quella striscia luminosa che finiva sulla spiaggia, scherzando con le onde. E quella striscia era un nastro che avvolgeva il mondo e lo rendeva bello, come un regalo di Natale, come un fermacapelli d’argento sulla testa di una donna, come una strada di luce che conduce dove c’è ancora spazio per i sogni. “Il mare dev’essere la cosa più grande che ci sia. Come mi piacerebbe, per una volta vederlo anch’io. Dimmi Hassad, cosa si prova di fronte a tanta acqua?“ Hassad avrebbe voluto darle i suoi occhi. Avrebbe voluto strapparsi quegli occhi che avevano visto dolore e miseria, sporcizia e crudeltà, che aveva chiusi per la vergogna e l’impotenza di fronte alle miserie della sua gente e regalarglieli, perché potessero riscoprire la bellezza dimenticata e raccontarla al mondo. “Sono sporca Hassad, non è assurdo rimanere sporchi con tanta acqua?”. “Vuoi bagnarti? Puoi farlo se vuoi.” “Oh dio, se lo vorrei, ma non ho un costume, non ho niente.” “Non c’è nessuno. Siamo soli, Sabrina, non senti che c’è solo il rumore del mare?” Allora lei si tolse i vestiti laceri, si tolse tutto e restò nuda nella luna mentre un brivido di felicità le attraversò la schiena. “Come sono Hassad?”. “Sei la creatura più bella che la luna abbia mai illuminato.” “Ti sei spogliato?” chiese Sabrina. “No.” “Allora fallo anche tu!” Sentì Hassad che si toglieva i vestiti e poi la sua mano sicura che la conduceva verso l’acqua. I loro corpi erano luminosi come quelli degli angeli. Quando sentì il rumore del mare vicino, Sabrina gli lasciò la mano e si mise a correre. Corse verso quel leggero ritmico fruscio, verso l’odore fresco di salsedine, ridendo di felicità. Sentiva Hassad che le correva dietro. Tutta la vita, tutta l’emozione, tutto l’amore confluiva in quell’unico momento. Due corpi bellissimi che correvano verso il mare, che si lasciavano bagnare dalle onde, ridendo e inciampando, abbracciandosi e lasciandosi. Niente è perduto se così assurda e improvvisa può nascere dal nulla la felicità. L’acqua era calda e Hassad vedeva solo il riso di Sabrina e il suo corpo fluido che aveva la luce della luna e lo stesso profumo del mare. Al limitare della strada, le dune erano coperte di neri arbusti che profumavano di lentischio nella notte. Un brivido di freddo li colse. Tornarono a riva e la camicia di Hassad servì bene o male ad asciugare i magri corpi. Il resto lo fece l’amore ed il calore che si scambiarono segretamente e che quell’immensa spiaggia, in milioni di notti simili, aveva imparato a custodire. “Parlami di te Hassad e del paese da cui vieni.” Hassad le raccontò allora dell’Etiopia, dei piccoli villaggi, delle capanne fatte di tronchi d’albero tenuti insieme dal fango, e dei tetti di paglia a forma di cupola; e le disse dei pavimenti fatti di escrementi di mulo essiccati e delle pareti rivestite di ritagli di giornale. Ma la sua casa no, la sua casa non era fatta così, disse con una punta di orgoglio. La sua casa era un antico castello sul lago Tana, vicino all’antica citta di Gondar, che un tempo era la capitale dell’Etiopia, e che si trova sugli altopiani a nordovest del paese. Una grande casa che doveva testimoniare la potenza della sua famiglia nella regione, e che, invece, non riuscì a salvarla dalla violenza e dalla vendetta. Le parlò dei suoi tanti fratelli, dei giochi nelle strade, e di suo nonno, che era il capo della famiglia e membro autorevole del Kebelé e che, quando era bambino, gli aveva insegnato l’italiano. Le parlò della nonna che, nei giorni di festa, cucinava lo uòt, un ragù con pezzetti di pollo, montone, uova e ceci, che mangiavano insieme a una frittella piatta che si chiama njera. Altre volte invece mangiavano carne cruda intinta nel berberè, che è una salsa di peperoncino tritato, così forte da far lacrimare chi non è un vero Amhara. “Tu sei un Amhara?” “Si.” disse Hassad, che aveva capelli ricci e neri, e occhi come tizzoni che Sabrina sentiva su di sé come spilli, anche se non li poteva vedere. “Al tramonto i giovani passeggiano sulle rive del lago Tana” continuò Hassad, che ormai era preso dai suoi ricordi, “a guardare i riflessi del tramonto sull’acqua e a sentire le musiche della nostra terra. A volte c’è chi suona il begana, che è poi la lira dei greci, la stessa con cui forse Omero accompagnava i suoi versi, altri si divertono a percuotere strumenti improvvisati che hanno costruito loro stessi, come il masenko, che ha una sola corda, ricavata dalla criniera di un cavallo. Ma ciò che vorrei che vedessi davvero sono le enormi cascate del Nilo blu. Tu che ami il rumore dell’acqua che scorre, lì sentiresti come un rombo umido avvolgerti completamente e una pioggia infinita di milioni di goccioline splendenti posarsi sul corpo.” “Perché sei venuto qui, Hassad, in questo inferno senza pietà, quando la tua terra è così bella?” chiese Sabrina. “Sono scappato perché la mia famiglia si era schierata contro il governo che, seppure sconfitto alle elezioni, aveva sostenuto ugualmente di averle vinte; moltiplicò i suoi voti con brogli e mandò l’esercito nelle strade di Addis Abeba e delle altre grandi città per reprimere le proteste. A Gondar sparò sulla folla e ci furono vittime a centinaia tra gli studenti, tra la gente inerme, tra quelli che avevano creduto che la democrazia fosse possibile. I giornali dissero che quelle manifestazioni erano illegali e i dimostranti fuorilegge. La comunità internazionale si girò dall’altra parte. Così la polizia venne a cercare mio padre e mio nonno e li arrestò. Io persi il mio posto di insegnante di storia e letteratura italiana e dovetti fuggire insieme a due miei fratelli. Ma credo che solo io sia riuscito a portare a termine la fuga. Degli altri, di mio nonno, di mio padre, dei miei fratelli non ho saputo più niente.” I due giovani si distesero sulla spiaggia. Ad Hassad sembrò che la volta del cielo fosse un’enorme bottiglia di vetro scuro e che lui fosse all’interno di questa bottiglia a guardarne la volta ricurva, e che fuori della bottiglia si distendesse uno spazio sconfinato e senza tempo, il cui significato gli era precluso. Uno spazio sconosciuto all’uomo, in cui qualsiasi cosa poteva celarsi, compreso Dio, poiché nessun uomo era mai uscito fuori dalla bottiglia. Si addormentarono abbracciati, proteggendosi l’un l’altro e sentendosi come due naufraghi fluttuanti dentro il mistero dell’universo. Alle prime luci del giorno andarono via. La stazione era ancora vuota di pendolari e raccoglieva sonnacchiosa il primo sole. Si sedettero su una panchina e attesero il treno. “Vorrei non tornare in quella lurida stazione.” disse Sabrina. “Non ci torneremo.” rispose Hassad. “E dove possiamo andare?” “Una volta sono stato, con uno del mio paese, a caricare legna sopra Rieti, su certe montagne bellissime e quasi disabitate. Lassù ho visto un paesino completamente abbandonato. C’erano le case, le strade, la chiesa, ma le persone non c’erano più. Mi sembrò incredibile, e mi venne voglia di andare ad abitare in una di quelle case, di metterla a posto e restarci. Poi non l’ho fatto perché sarei stato troppo solo. Ma ora che ci sei tu, se vuoi, potremmo andarci davvero.” “Ma se il paese è vuoto, come faremo a viverci?” “Anche se è disabitato, vicino ci sono altri paesi, dove vi sono persone, negozi, fattorie e persino ristoranti.” “Sarebbe bello, ma noi non abbiamo un lavoro, non abbiamo soldi, non abbiamo niente!” obiettò Sabrina. “Non ti preoccupare. Io so come fare. Tu magari non ci fai caso, ma la gente ha così tanti beni che deve abbandonarli per strada per comprarne di nuovi. Le persone sembrano prese da una specie di frenesia che le costringe a gettare via oggetti nuovi, per sostituirli con altri ancora più nuovi e moderni, anche se le cose buttate sono a volte perfino più belle di quelle acquistate. Allora ho imparato a raccogliere questi oggetti, pulirli, aggiustarli e poi rivenderli ai mercatini ed alle fiere di paese. Ed è così anche per il cibo e per ogni altra cosa. I negozi di alimentari, ad esempio, hanno sempre merce in scadenza che devono eliminare, anche se è ancora buona. Potremmo farcene regalare un po’ e utilizzarla per le nostre necessità. In quel paesino che ti dicevo, poi, gli orti sono stati abbandonati. Noi potremmo coltivarne uno. Con pochi soldi potremmo comprare semi e farli diventare piante, comprare pulcini e farli diventare galline e raccogliere le uova per mangiarle o venderle. Per i vestiti poi basterà chiederli, Nessuno vuole più gli abiti usati; perciò, se li chiediamo ce li regaleranno volentieri, se non altro, per svuotare gli armadi stracolmi. Fidati di me. Si può vivere anche senza soldi. Ma se vuoi, sapremo fare anche quelli.” Così non tornarono alla stazione Termini ma presero una corriera che lentamente si inerpicò tra i monti, attraversando infiniti paesini sempre più piccoli, in ognuno dei quali questa lasciava scendere alcuni passeggeri, svuotandosi lentamente, come una strana clessidra che, a misura del suo tempo, sparpagliava per le montagne i suoi grani, finché, quasi vuota, si fermò alla stazione che Hassad già conosceva. Allora i due scesero, tenendosi per mano, e continuarono a salire a piedi per un tratturo che si inerpicava tra prati verdissimi, fino ad arrivare sulla piazza del piccolo paese che Hassad aveva visto a suo tempo e che era ancora completamente abbandonato. Affacciata a una finestra, una mucca pezzata ruminava tranquillamente. La casa aveva intorno un ampio orto, ormai incolto ed approssimativamente delimitato da una staccionata in buona parte crollata. Ma il tetto sembrava ancora integro e le finestre avevano gli infissi quasi in buono stato. Il sole entrava dolcemente nelle stanze e in una di queste c’era perfino un camino in pietra grigia che sarebbe tornato comodo d’inverno. Hassad pensò che quella poteva essere la loro casa e chiamò Sabrina per fargliela visitare. Lei entrò, appoggiandosi al suo braccio e sentì che la casa era asciutta e che il sole le carezzava il viso, e rise felice. Allora Hassad raccolse dalla strada una tavoletta di legno e vi scrisse sopra con un pennarello “Sabrina e Hassad” e la fissò a lato della porta d’ingresso. Sabrina si sedette su una panca, che sembrava messa lì da tempo immemorabile, e si assopì al sole. Hassad la lasciò dormire e andò a vedere se in casa c’era qualcosa che poteva tornargli utile. Trovò un letto, benché senza materasso e, in un’altra stanza, un armadio e un comò che avrebbe potuto facilmente restaurare. In cucina c’erano una vecchia madia verde e un tavolo sbilenco dello stesso colore, addossati al muro. Non era molto, ma abbastanza per iniziare, con un poco di fortuna, una nuova vita.

1 commento: